Sprofondi sul divano con lo smartphone in mano, come se stessi masturbando la tua nuova appendice digitale. Schiena curva, bocca semiaperta, occhi socchiusi, respiro corto. Sullo schermo scorrono reel infiniti: donne mezze nude, gattini che intrattengono meglio di un comico, indignazioni prefabbricate sulla battaglia politica del momento.
Il tepore del feed ti culla, accarezzandoti le sinapsi. Neanche il confronto più rancoroso, neanche il contenuto più ostile possono raggiungerti nell’agio del cuscino che ha preso la forma del tuo culo. E mentre il tuo cervello è elettrizzato e confuso da scariche intermittenti di euforia e sdegno, il tuo corpo marcisce sotto il peso della gravità.
Interfacce rassicuranti e algoritmi modificano i tuoi stati d’animo come un modulatore Penfield. Sei un leone da tastiera, o un attivista da feed — poco cambia. Qualcuno ti ha convinto che partecipare alla collettività digitalizzata possa cambiare il mondo. Che devi assolutamente informarti sugli ultimi accadimenti, altrimenti resti indietro e non fai la tua parte. Ma ti assicuro, del tuo contributo non interessa a nessuno, se non all’algoritmo di raccomandazione.
La rabbia e lo sdegno sono il carburante preferito della Big Tech, della Big Media e della politica. Guerre e genocidi diventano una performance masochistica di massa: un’autoflagellazione voyeuristica che non purifica né illumina i suoi partecipanti, ma fiacca, deprime. E ingrassa. Perfetta per gli psicoterapeuti.
Ti rifugi consapevolmente o inconsapevolmente nella sofferenza mentale: il tuo cervello sospeso in una scatola cranica liquefatta, traboccante di notizie di cronaca, attivismo da social e bandiere da issare sul bracciolo del divano al momento opportuno.
Anestetizzato dal feed e dai talkshow, ti ricordi di essere vivo solo perché qualcuno ti saluta la mattina. Perfino la lasagna di tofu surgelata che la sera ti guarda dal forno è più reale di te: asettico, dissociato, nevrotico. Tranquillo, è tutto nella tua testa.
«È la sofferenza a distinguerci dalle macchine» mi dice Brenda. È la sofferenza a renderci umani. Ma non la sofferenza mentale. Quella fisica: che ci ricorda che siamo divinità incarnata.
La tecnologia digitale lavora per eliminarla, per offrirci mille comodità narcotizzanti: una poltrona massaggiante per cervelli nel torpore metafisico dell’accelerazione capitalistica.

Internet è gabbia e confessionale, dove il capitalismo digitale si traveste da rivoluzione bolscevica da divano: uno sfogo senza sfogo; miseria umana che riproduce altra miseria in un loop infinito.
Ma Dio si è fatto carne, non pensiero. È la sofferenza dell’esperienza incarnata a racchiudere i segreti della divinità e dell’umanità: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo.” Ma chi ha bisogno di un corpo, quando basta un pollice per sentirti parte della tua tribù virtuale preferita e partecipare alla fustigazione collettiva?
Forse è anche per questo che dopo vent’anni ho ripreso le arti di combattimento.
Ho scelto la boxe thailandese: disciplina elegante nella sua spietatezza. Basta una ginocchiata alle costole per ricordare che siamo carne, non un cervello sospeso nell’etere. È l’impatto a richiamare la sacralità del corpo. Non è soltanto una massa molliccia di organi e grasso a sostenere un cervello, ma un tempio che custodisce la nostra identità.
Non è il mondo a essere degenerato. Sei tu. Non sono le guerre e i genocidi il problema: il male esiste da sempre.
Il problema è scambiare l’esposizione volontaria al male per un atto di resistenza. Essere attivi mentalmente e passivi fisicamente. Ayn Rand sosteneva che il pensiero senza l’azione è fraudolento.
Litigare col fascista di turno nei commenti non ti rende uno dei giusti. Spoiler: il fascismo è una reliquia del XX secolo — tira fuori la testa dal buco, evolvi.
Protestare in piazza per Gaza, postare le storie su Instagram e ricondividere post di attivismo politico ottimizzato per diventare virale non fa di te un crociato. È la tua costante attenzione ad alimentare lo stesso male che vuoi combattere a forza di like&share. Il tuo masochismo psicologico si riverbera tutto intorno a te, contagiando il tuo prossimo. E nel frattempo, tu deperisci, fallendo nell’unica missione che Dio ti ha dato: rendere grazia alla tua umanità e avere compassione del tuo prossimo (vicino nello spazio-fisico).
C’è un meme che dice: “la soluzione non è politica”. È così. Non sarà mai collettiva. Dio si è incarnato in Cristo — un essere umano — non come entità eterea pronta ad allucinare e aizzare folle rabbiose. Quello era Nyarlathotep.
Il corpo che soffre, il corpo che lotta, il corpo che sanguina: è questo l’unico antidoto contro la dissoluzione e la rabbia algoritmica che senti nello stomaco ogni volta che apri il feed.
Il mondo ti vuole passivo, dissociato, pronto a piangere per indignazioni digitalizzate e prefabbricate; un numero in una folla informe: “eravamo diecimila in piazza!” — “Guarda, l’abbiamo ricondiviso in trecentomila!” Ma tu, chi sei?
Chi fugge la sofferenza fisica, preferendo quella intellettuale, diventa fragile e manipolabile. Sangue, sudore e respiro affannoso: queste sono le ultime preghiere rimaste. Per rimanere umani in un mondo disumano.
Sole, acciaio e silicio
È quasi primavera, ma l’inverno sembra più presente che mai, quasi a ricordarmi che anche le cose morte non vogliono morire. La leggera brezza che trasporta freddo e umidità mi colpisce gli occhi, che lacrimano non appena accelero il passo e inizio a correre sul marciapiede bagnato.
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Bro, pochi sanno soffrire fisicamente ed apprezzarne i benefici. Essere allineato e coperto basta e avanza per molti di noi. Purtroppo.