Sole, acciaio e silicio
Senza disciplina interiore, l'IA è un sostituto della fatica spirituale e fisica: è Gnosi as a Service, ma la conoscenza che offre è un guscio vuoto.
È quasi primavera, ma l’inverno sembra più presente che mai, quasi a ricordarmi che anche le cose morte non vogliono morire. La leggera brezza che trasporta freddo e umidità mi colpisce gli occhi, che lacrimano non appena accelero il passo e inizio a correre sul marciapiede bagnato.
Il freddo mi ricorda che sono vivo: i muscoli si irrigidiscono su se stessi, trovando la loro identità biologica nello scontro con l’atmosfera fredda. Esisto, perché sento freddo. È il breve momento di lucida consapevolezza della soglia tra me e il resto dell’universo, prima che il corpo inizi a riscaldarsi — dissolvendo i confini sotto la spinta del suo stesso calore. Il freddo solidifica e restringe. Il caldo dissolve ed espande. Ispira, espira.
All’uscita del paese, prima dell’inizio dei campi, un rospo incrocia la mia strada; forse un simbolo della transizione. Avrei potuto calpestarlo, tanto si confondeva con il grigio e verde del marciapiede umido e pieno di muschi e licheni. Mi fermo un momento per osservarlo. Chissà se è interessato a me tanto quanto io sono interessato a lui. Dopo qualche breve momento d’intesa entrambi riprendiamo le nostre strade. Al ritorno non l’avrei più trovato.
Sono sveglio dalle 5. Oggi è giorno di digiuno. La corsa fa parte del mio rituale di meditazione, che a stomaco vuoto funziona meglio. Prima di uscire e prima di svegliarmi stavo sognando; era un sogno importante, ma tutti i sogni lo sono. I pianti di mia figlia spazzano tutto via e mi riportano in Malkuth, nel mio letto. Non ricordo niente, se non che da qualche parte c’era ancora il numero 24.
I piedi si alternano tra loro, e il freddo è ormai solo una sensazione lontana. Nelle orecchie Hoar Frost degli A Tergo Lupi, la canzone che da tutto l’inverno mi accompagna quando mi alleno, in un loop costante: il mantra del mio personale rito meditativo. Runs the cold wind, runs | and lift up our breaths | signs the skin with its marks | and it burns our scars | no cold, or wind | could hurt the dry tree.
Sto leggendo Sole e Acciaio di Yukio Mishima. Un passaggio mi ha colpito particolarmente e ci penso da giorni:
[…] perché gli uomini cercano la profondità, l’abisso? Perché il pensiero si preoccupa solo di scendere perpendicolarmente, come un filo a piombo? Perché non riesce, cambiando direzione, a salire verticalmente in alto, verso la superficie? Il dominio della pelle, che garantisce un’esistenza formale all’essere umano, è abbandonato alla sensibilità, è il più disprezzato; una volta che si era diretto verso la profondità, il pensiero tentava di penetrare negli abissi imperscrutabili insabbiandosi; quando mirava in alto, esso lasciava la forma corporea per allontanarsi librandosi verso la luce di un cielo infinito e ugualmente invisibile; e io non comprendevo le leggi che governavano i suoi movimenti. Se il principio fondamentale del pensiero era mirare all’estremo, sia verso l’alto che verso il basso, mi pareva del tutto irrazionale che non si scoprisse una specie di abisso nella «superficie», che garantisce la consistenza e la forma del nostro corpo, importante frontiera che divide il nostro mondo interno da quello esterno; mi sorprendeva che non si fosse affascinati dalla «profondità della superficie».
I pensieri, ho scoperto nell’ultimo anno di allenamenti quotidiani e meditazione, sono come il sudore. L’allenamento, come forse accadeva anche a Mishima, è la mia forma prediletta di meditazione e di riflessione: è con la fatica che le idee traspirano in superficie.
Prima di giungere in superficie i pensieri però devono condensarsi nell’umidità profonda della mente e dello stomaco. In qualche modo, credo che il pensiero richiami il respiro. Ispira; espira. Scendi nell’abisso; risali in superficie. Il pensiero abissale, quello inconscio, può essere il presupposto del pensiero razionale e consapevole, che traspira in superficie, alla luce del Sole.
Non credo però che siano la stessa cosa. I due possono essere separati e autonomi tra loro. Ci sono idee e archetipi che non risalgono mai alla luce del Sole. Altri invece che nascono e muoiono velocemente in superficie, seccati dal calore estremo della Ragione e dall’assenza di radici.

Lo spirito ahrimanistico della tecnologia digitale ci spinge verso il secondo tipo di pensiero, quello lucido, razionale; usa e getta. Le macchine pensanti che chiamiamo intelligenze artificiali generative hanno bisogno di input chiari, scientifici e inequivocabili. Solo così potranno svolgere il loro lavoro di oracoli digitali ed esaudire i nostri desideri. Ma si sa: quando si chiede qualcosa al genio della lampada bisogna essere estremamente puntuali. Non c’è spazio per pensieri aggrovigliati, incompleti, ambigui e gutturali.
Questo ci abitua a evitare il lavoro necessario per formare i pensieri del primo tipo, quelli abissali, meditativi e che affondano le loro radici nello stomaco.
Nell’Era Digitale non c’è posto per il gut feeling, per le intuizioni confuse e caotiche che arrivano dalla meditazione, dalla disciplina del digiuno e dalla fatica fisica. Perché scomodarsi, quando tutto ciò che serve per avere successo nel velocissimo iper-capitalismo tecnocratico è essere puramente e costantemente lucidi e razionali davanti a uno schermo nero? Wall Street non attende.
La tecnologia digitale prende il lavoro interno, quello più rognoso, antipatico e faticoso, e lo esternalizza: chiedere a chatGPT di scrivere un articolo di seicento parole ottimizzato per il SEO, giocare ai videogiochi invece che rotolarsi in giardino, chattare online con sette persone contemporaneamente dalla comodità del divano piuttosto che dialogare con qualcuno nel disagio di un vero incontro.
L’intelligenza artificiale ci priva del processo di traspirazione delle idee: tutti i risultati, senza alcuna fatica. Ma non può esserci alcuna vera conoscenza senza sudore — sia esso intellettuale o fisico.
Chiunque è in grado di sperimentare che nessuna tecnica dell'azione produce il benché minimo effetto se non è immersa, mediante un ripetuto allenamento, nel mondo dell'inconscio. […]
Senza disciplina interiore, l'IA è un sostituto della fatica spirituale e fisica: è Gnosi as a Service, ma la conoscenza che offre è un guscio vuoto.
Sta a noi riempirlo di significato, che può essere trovato solo percorrendo il nostro cammino intellettuale, spirituale e fisico. La vera Gnosi non può essere esternalizzata, ma può essere catalizzata attraverso l’interazione tra umano e macchina; un equilibrio sottile che richiede una disciplina interiore solida per creare un movimento coerente tra abisso e superficie.
Mishima cercò la sintesi tra carne e spirito, corpo e parola, dolore e bellezza. La nostra epoca ne richiede un’altra: carne, spirito e macchina; tra il pensiero abissale e la fredda superficie algoritmica.
Sole, Acciaio e Silicio.
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Qualcosa mi dice che hai leccato quel rospo per strada 😂