Privacy come Jihad
Una disciplina per proteggere il principio umano dalla colonizzazione algoritmica.
Nei giorni scorsi una persona mi ha scritto una domanda che ritorna ciclicamente; un refuso dell’epoca pre-digitale:
Why is there no freedom without privacy? What are you afraid of? Freedom is not attained through external means, it is internal.
È la versione elegante della solita obiezione: “Cos’hai da nascondere?”
Stavo per rispondere direttamente, poi ho capito che valeva la pena farlo pubblicamente. Non perché la domanda sia nuova, ma perché nasce da un presupposto ormai fossilizzato: l’idea che privacy e libertà appartengano ancora alla logica del mondo analogico.
Quella domanda sopravvive da un’epoca in cui la vita privata era un dato di fatto, non una conquista. Un’epoca in cui il mondo non era ancora stato convertito in bit, correlazioni e inferenze. È un modo di pensare boomeristico, pre-gnostico: ignora che la realtà è cambiata nella sua struttura ontologica.
Mi rendo conto che la parola privacy non aiuta. Anzi, è obsoleta. Purtroppo non abbiamo ancora un neologismo per descrivere un concetto più moderno rispetto a quello classico di privacy, e dobbiamo farcela andar bene.
Questo però è il punto da cui partire: sebbene la parola privacy sia la stessa dai primi del 1900 a oggi, il suo significato è profondamente cambiato. Se prima la parola indicava la volontà di mantenere riservata la propria vita privata, cioè separata dalla sfera pubblica, oggi non è più così.
Ieri, la vita era privata per definizione. Nell’eventualità in cui alcune parti della propria vita venissero esposte pubblicamente, questa era vista come una violazione della propria privacy.
Oggi, la vita è pubblica per definizione. Tutto ciò che facciamo, diciamo, ascoltiamo è pubblico e disponibile più o meno a chiunque — tranne ciò che scegliamo consapevolmente di mantenere privato con uno sforzo attivo.
Questa è la prima grande differenza.
Appare quindi evidente che la necessità oggi non sia nascondere la nostra vita privata, ma controllare quali parti della nostra vita (pubblica) debbano rimanere private. E perché devono rimanere private? Non per la volontà di nascondersi, ma per proteggere la propria capacità di pensiero e d’azione.
Nel mondo materiale, c’è una netta separazione tra pensiero e azione, anche a livello temporale: difficilmente qualcuno potrà desumere il nostro pensiero a tal punto da ottenere il potere di manipolarci, semplicemente osservando le azioni che compiamo nel mondo materiale. Servirebbe un’osservazione totalizzante, a livello di Truman Show.
Nell’ambiente online invece accade l’opposto: ogni azione lascia una traccia indelebile che può essere analizzata, aggregata e correlata con altre tracce. Acquistare un paio di scarpe online non è affatto la stessa cosa che acquistare un paio di scarpe al negozio di quartiere, pagando in contanti.
Ne consegue che chiunque abbia le capacità tecniche di ottenere queste informazioni, questi bits che ci lasciamo dietro, acquisisce un potere enorme: quello di inferire il pensiero, le abitudini, le relazioni, le paure e i sogni di colui che compie azioni online.
È un potere quasi Divino.
Ogni azione digitalizzata ha delle conseguenze che si riverberano nel corso del tempo, e che prima o poi impatteranno nella nostra vita.
Veniamo quindi al cuore della questione: serve privacy oggi per essere liberi? La persona che mi ha posto questa domanda ha anche scritto un breve articolo in cui discute del significato di libertà (di agire, essere):
Freedom is not absolute. We can never totally break the chain of past karma. We will have to live within the bounds of those past choices. But we can make realistic choices from this present moment. We can undo our habits. We can dismantle our self. We can shed our identities. This seeing will give us a great deal of freedom.
La libertà è pertanto libertà di scelta “interna”; cioè scegliere chi siamo e chi saremo. Sono d’accordo. Ma la libertà di scelta (di essere, di agire) presuppone libero arbitrio e assenza d’ingerenza nelle nostre scelte. Se queste sono forzate o imposte da terzi, allora non sono davvero scelte e non c’è davvero libertà di scelta.
Come già ebbi occasione di discutere (qui), parlare di libertà di scelta o libero arbitrio, in generale, è estremamente complesso. Ci riflettiamo da migliaia di anni, e l’idea di libero arbitrio cambia molto a seconda dell’approccio filosofico.
Secondo Ludwig Von Mises, l’azione umana è sempre intenzionale: una scelta ponderata tra alternative, dove ogni individuo valuta costi e benefici per orientarsi verso il fine che desidera. Ma questa idea funziona solo in un mondo in cui il soggetto rimane integro e la sua capacità di valutare rimane autonoma.
Quel mondo è morto.
Oggi la struttura che precede le nostre scelte non è più neutra: è un ambiente modellato, addestrato, che non solo ci osserva, ma modella. Un ecosistema in cui preferenze, paure e inclinazioni vengono registrate, interpretate e poi restituite a noi sotto forma di possibilità già pre-selezionate. Siamo agenti che scelgono tra opzioni costruite per noi.
Mises lega la libertà alla capacità di autodeterminare i propri fini. Ma se l’architettura digitale può influenzare quei fini prima ancora che emerga un desiderio consapevole, allora la libertà smette di essere una condizione naturale. Diventa una pratica. Una disciplina. Una difesa dalle interferenze che colonizzano la volontà dall’interno.
Andando oltre, possiamo anche affermare che la libertà di scelta (libero arbitrio) è un requisito fondamentale per acquisire conoscenza sul mondo e pensare liberamente.
Gli esseri umani non sono onniscenti o infallibili, e l’unico modo che hanno di comprendere se stessi e il mondo che li circonda è attraverso il confronto con altri esseri umani.
Ciò significa che un essere umano è libero di essere “se stesso” solo nel momento in cui può pensare (elaborare informazioni) e agire (sulla base delle informazioni) senza interferenze o intermediazioni di vario tipo.
Come possiamo quindi presumere di pensare e agire liberamente in un mondo in cui tutto ciò che facciamo viene trasformato in bits fagocitati da algoritmi impegnati in sistematiche e pervasive opere di manipolazione della realtà, sia verso le persone intorno a noi, che verso noi stessi?
La tecnologia digitale e i suoi sistemi di osservazione e modellazione si pongono come intermediari assoluti di quasi ogni rapporto umano. Più esponiamo noi stessi a questi sistemi, più sarà facile per il Dio Macchina conquistare la nostra anima.
La manipolazione oggi è fluida, adattiva, predatoria e permanente. È un flusso continuo e personalizzato che plasma emozioni, percezioni e priorità. Non colpisce dall’esterno: si annida nella nostra attenzione, nelle nostre micro-scelte, nella geografia di ciò che consideriamo importante.
E chi detiene i nostri dati, non solo inferisce cosa pensiamo, ma anticipa anche cosa penseremo in un dato momento. La privacy allora è anche determinazione temporale del sé: controllando quali dati offriamo, controlliamo i futuri che possono esistere per noi.
La privacy quindi non è più protezione dall’invadenza di vicini di casa o giornalisti. È protezione dall’esproprio dell’anima. Una disciplina iniziatica per impedire allo Spirito Ahrimanico della tecnologia di inghiottirci.
La privacy è Jihad. Una crociata sacra, contro contro le distrazioni ossessive, le manipolazioni sottili, le censure velate e gli algoritmi predatori dispiegati da chi ne brandisce il potere; contro il dolce oblio dell’indifferenza, dell’irresponsabilità e dell’automatismo – contro l’essere spettatori della nostra stessa esistenza.
Questo è il campo della privacy: la soglia tra la coscienza e la macchina. Lì si misura la libertà.
La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.
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