Ombre dietro lo schermo
Dall'Iperuranio a Sharepoint, riti quotidiani di un’umanità che non ha più corpo.
Ore 6:45, più o meno — il mio corpo inizia a svegliarsi, obbediente al mio orologio interno, come una macchina programmata senza cura. Le palpebre si aprono mentre dalle persiane filtra un sole biancastro, lattiginoso. Sento il sogno della notte scivolare via e non c’è niente che posso fare. Peccato, mi sembrava importante. Mi parlava di Iperuranio.
La mia mattina ha due ore di respiro. Dalle 7 alle 9: camminata con la mia ragazza e figlia, un caffè, qualche chiacchierata. Poi mi siedo davanti al PC, la macchina esoterica che trasforma il silicio compresso in linguaggio, e inizia il rituale quotidiano.

Da lì in avanti, il mondo è una sequenza di finestre virtuali e notifiche: email, call, report, chat, documenti condivisi. Un teatro senza attori. Non ci sono volti, ma foto profilo. Non ci sono voci, ma flussi di streaming. Eppure, dall’altra parte — presumibilmente — ci sono altri esseri umani.
Sono fortunato: lavoro da casa mia, coi miei orari, i miei modi, senza scocciature e senza camicia. Ma il lavoro remoto può essere libertà nella forma e prigionia nella sostanza.
Passo le ore a risolvere problemi di privacy e cybersecurity per aziende chissà dove, dialogando con referenti aziendali senza corpo. Spesso non so che faccia abbiano, quale sia il loro tono di voce, cosa fanno durante la pausa pranzo. Alle battute ridono a bocca aperta o chiusa? Ci sarà davvero qualcuno dall’altra parte dello schermo?
Anche il linguaggio è addestrato a giocare con le ombre: “Spero che questa email ti trovi bene.” “Cordiali saluti.” Frammenti prefabbricati che simulano empatia per qualcuno che esiste solo come idea astratta. Non dialoghiamo, ma c’interfacciamo con altri esseri umani — intermediati da sistemi informatici, schermi LCD, sottotitoli e sfondi virtuali di meravigliose spiagge caraibiche che non esistono.
Un tempo l’umanità cercava connessione guardando la stessa luna. Ora basta sapere di avere la stessa suite di Office installata. Per evitare conflitti e lavorare sullo stesso sharepoint.
Perfino la lingua non conta più. Abbiamo eretto una Babele digitale e fregato Nimrod. Italiano, inglese, russo, cinese. Tutto è immediatamente traducibile. Perfino le leggi iniziano a confondersi tra loro, uniformate in template standardizzati. I legislatori si copiano a vicenda, e va bene così.
E i colleghi? Ombre digitali anche loro, che prendono forma solo durante le rare riunioni in presenza e la cena di natale. Non c’è più bisogno di loro quando un modello linguistico, addestrato su miliardi di conversazioni, risponde alle richieste di assistenza con maggiore velocità e precisione.
Il lavoro intellettuale moderno implode su se stesso: una simulazione di dialogo che serve solo a convincerci che — davvero — non stiamo parlando da soli, dall’altra parte c’è qualcuno! Un circuito chiuso, un cervello che si specchia nel proprio riflesso elettronico e lo scambia per “altro”.
Le email già ora potrebbero essere scritte da agenti automatizzati. Relazioni tecniche e pareri legali e già ora potrebbero essere generati, confezionati, distribuiti da intelligenze artificiali senza volto, senza voce, senza anima ad altre intelligenze artificiali che le fanno proprie.
Siamo tutti complici di una convenzione fragile, un accordo sociale che resiste solo perché tutti fingiamo di crederci. E quando cadrà il velo, nessuno noterà la differenza.
Anche ora, scrivo questo contenuto per qualcuno che forse esiste, da qualche parte del mondo, o forse risiede soltanto nella mia testa e negli algoritmi di analytics di Substack. C’è qualcuno la fuori?
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