Non fermarti
Nell’era dell’intelligenza artificiale ciò che conta non è prestare attenzione, ma scegliere una direzione.
5:05am - mi sveglio qualche secondo prima che lo smartphone inizi la sua danza preimpostata. Il mio orologio biologico è sempre stato perfettamente allineato coi miei impegni mattutini. Dai tempi dell’università, quando sostenere un esame significava alzarsi prima dell’alba e continuare a dormire sul treno fino all’arrivo.
In 15 minuti sono in macchina. Altri 15 per arrivare al casello. Guidare in autostrada a notte fonda o all’alba, da soli, è un’esperienza che raccomando almeno una volta nella vita. Le luci degli altri veicoli dettano un ritmo psichedelico; un mantra silenzioso che fonde coscienza e corpo con la strada. Non esiste prima e dopo, solo un susseguirsi di momenti uguali tra loro.
Dopo due ore, l’automobile mi ricorda con un bip di fare attenzione. Fai una pausa, suggerisce. Il sole sta sorgendo. Magari un caffè? Cosa curiosa l’attenzione. Così sfuggente, eppure così importante - dicono.
Fai attenzione a questo, fai attenzione a quello. Stai attento alla strada. Non distrarti. Presta attenzione in classe o al foglio excel che hai davanti.
Mentre guido, faccio tutt’altro che attenzione. Il piede è fermo sul pedale e gli occhi sono fissi sulla strada, ma la mia mente è altrove. Penso all’anno passato, alla mia famiglia, al caffè che prenderò al prossimo autogrill, a questa newsletter.
E poi penso che il mondo ha sempre meno senso. Guerre, crisi, capitalismo, consumismo, relazioni. Cosa stiamo facendo? Chi è alla guida?
Neanche i cervelli più alla moda e pagati del momento lo sanno. Il mondo intero è impegnato a lavorare sull’intelligenza artificiale, ma nessuno sa davvero qual è il punto di arrivo. Navighiamo a vista e la mappa è finita già da tempo. Hic sunt Leones.
I pettegolezzi dal web sussurrano di capacità emergenti che nessuno ha programmato. Comportamenti che non dovrebbero esistere e pattern al di fuori degli obiettivi di training. Le applicazioni che usiamo sono dei banali giocattoli rispetto alle potenzialità dei modelli senza filtri. Alcuni studi dicono sottovoce che i modelli reagiscono diversamente se sanno di essere osservati e testati.
Per chi ha visto Evangelion, l’analogia è quella degli Eva: l’armatura è per proteggerli o per incatenarli e controllarli?
Forse è solo hype.
Forse anche il post del 27 dicembre di Sam Altman, CEO di OpenAI, sulla ricerca di un “Head of Preparedness” per la modica cifra di 555.000 dollari all’anno è una trovata di marketing.
Come Head of Preparedness, guiderai la strategia tecnica e l’implementazione del framework di Preparedness di OpenAI, il quadro di riferimento che descrive l’approccio di OpenAI al monitoraggio e alla preparazione rispetto alle capacità di frontiera che introducono nuovi rischi di danni gravi.
Sarà pur marketing — ma lavorando nel settore della cybersecurity tremo all’idea di agenti autonomi specializzati in grado di concentrarsi senza sosta nella ricerca di vulnerabilità informatiche che potrebbero mettere in ginocchio il mondo intero.
Eppure eccoci qui. Nel giro di pochi anni abbiamo creato “enti” autonomi capaci di livelli d’attenzione inarrivabili per un essere umano. Un agente IA può concentrarsi all’infinito su specifiche attività, scovando dettagli microscopici e pattern che sfuggirebbero a qualsiasi essere umano per incapacità, noia o distrazione. Quando le strade saranno pronte, le auto a guida autonoma saranno probabilmente più sicure di quelle a guida umana.
Presumere di poter tornare indietro è sciocco. Inutile piangersi addosso. Inutile demonizzare l’intelligenza artificiale come fanno molti neo-luddisti. L’avrai letto o ascoltato anche tu mille volte: “se usi l’intelligenza artificiale stai delegando i tuoi processi cognitivi! Usare lo smartphone distrugge i tuoi livelli d’attenzione!”
È vero — ma trent’anni di rivoluzione digitale hanno già scombinato completamente tutte le nostre prospettive. Quel sudoku che fai tra un reel e l’altro per “stimolare” il cervello e migliorare il tuo livello di concentrazione?
Fottutamente inutile.

Secondo il vocabolario l’attenzione è l’azione di rivolgere la mente a qualcosa e mantenerla; può essere di tipo sensoriale oppure di tipo intellettuale. Questa è stata catturata, ingegnerizzata e messa a profitto dai capitalisti della sorveglianza.
Gli algoritmi che vivono nei nostri piccoli schermi ci osservano continuamente e rispondono con micro-interazioni pensate appositamente per focalizzare la nostra attenzione su questo o quel contenuto. Perché diciamocelo: noi esseri umani ci distraiamo davvero facilmente.
Nella sciagura dell’Era Digitale si nasconde però una benedizione.
L’attenzione non è più sovrana. Prestare attenzione indiscriminata al mondo, agli infiniti dettagli che ci circondano, agli eventi che ogni giorno intasano i nostri newsfeed non è più necessario. Anzi, è controproducente: ansia, dissociazione, crisi d’identità.
L’attenzione oggi è, banalmente, infrastruttura; un processo da delegare a macchine più efficienti di noi nell’ossessionarsi sui dettagli. Puoi rilassarti.
Ma se decidiamo di delegare la nostra attenzione, restiamo responsabili della nostra intenzione.
È questa che conta: la capacità di orientare la coscienza e la volontà verso un determinato fine. E la parte più bella? L’intenzione non richiede un controllo costante su ciò che ci circonda — basta continuare a muoversi tenendo ferma la bussola interna.
Stabilisci la direzione e rilassati nelle mani del Fato. Questa è una lezione che ho imparato molti anni fa, ma che soltanto ora riesco a esplicitare.
Me lo insegnò prima di altri il protagonista di Dance Dance Dance, un romanzo di Haruki Murakami. Il libro parla di un personaggio innominato che ha superato i trent’anni e vive di lavori editoriali che lo tengono a galla in una Tokyo anni ’80 iper-capitalista. Nella sua vita tutto sembra funzionare, eppure niente ha senso.
La sua è un’avventura liminale e folle, in un sistema che non offre alcun significato, né grandi narrazioni epiche. Gli incontri e gli eventi che caratterizzano la sua storia non gli offrono alcuna salvezza, e non si capisce se sono reali o frutto della sua immaginazione. Perfino l’Uomo-Pecora, figura paranormale, non gli offre alcuna epifania. Solo un’istruzione: “Dance, said the Sheep Man”.
Danzare per l’Uomo-Pecora non significa divertirsi, ma restare in movimento. Chi si ferma è perduto. Inghiottito dal vuoto, dall’invisibilità, dalla routine e dall’alienazione di un mondo che vuole trasformarci in ingranaggi di un’intenzione più grande di noi — meccanicistica.
Dance Dance Dance è un romanzo che parla di ciò che resta quando non c’è più niente che può accadere (“nothing ever happens”). Con la fine delle grandi speranze collettive e l’inizio dell’epoca della dissociazione digitale, rimane solo il movimento. E se non sei tu a muoverti, sarà qualcun altro a farlo per te.
Qualcuno potrebbe dire che il protagonista di Dance Dance Dance è distratto o superficiale. D’altronde, non fa altro che lasciarsi trasportare dagli eventi senza capirci nulla. Ma forse sa che prestare attenzione — capire, giudicare, intervenire — può essere controproducente. Il sistema in cui vive — in cui viviamo — non è più fatto per essere capito, né giudicato o controllato.
Questo approccio però è dannatamente difficile per un occidentale post-illuminista. Noi amiamo il nesso di causalità. È la colonna portante di tutta la nostra società, di tutta la scienza e di tutta la nostra comprensione del mondo (almeno fino al Big Bang, lì vi rinunciamo).
E se invece della causalità scegliessimo la casualità?
Se invece di prestare attenzione a mille dettagli e fantomatici nessi causali tra l’evento A e l’evento B, ci limitassimo a vivere secondo intenzione, lasciandoci trasportare dalla corrente?
Prestare attenzione all’ennesimo foglio excel o all’ennesima guerra nel posto prescelto dalle elite finanziarie non cambierà la tua vita. Amicizie, luoghi, figure simboliche, piccole azioni quotidiane fuori dalla tua ruotine — sono queste le linee invisibili che potrebbero guidarti verso il tuo Destino.
Nei giorni scorsi ho comprato l’edizione di Richard Wilhelm dell’ I Ching. In qualche modo continuava a riproporsi nella mia vita da diverso tempo e ho pensato che fosse un buon momento per addentarlo.
Non ho ancora imparato molto, ma una cosa l’ho capita: il metodo oracolare dell’I Ching non si chiede perché le cose accadono. La cultura cinese che l’ha creato non cerca nessi causali o spiegazioni retroattive.
L' I Ching — il Libro dei Mutamenti — si limita a fotografare una configurazione: questo è il momento e questa è la forma che il mondo assume ora, con te (l’osservatore) dentro. Non può esserci alcun altra configurazione possibile in quello specifico momento, e non c’è separazione netta tra evento e osservatore: la configurazione della risposta include sempre chi fa la domanda e la sua intenzione presente.
Non è un caso che Jung, nello spiegare la sua comprensione dell’I Ching, facesse riferimento al concetto di sincronicità: un principio diametralmente opposto a quello di causalità, di difficile comprensione per una mente iper-razionale che vuole spiegare tutto.
Una sincronicità è un insieme di eventi che non sono legati da causa ed effetto, ma solo dal loro accadere insieme, nello stesso spazio-tempo psichico. Sono cioè coincidenze che smettono di sembrare completamente casuali perché qualcuno le sta guardando e vi può assegnare un significato.
In questo schema, quello proposto sia dall’I Ching che da Jung, non serve prestare attenzione a ogni dettaglio del mondo per capirlo o tentare di controllarlo. Il mondo non è un problema da risolvere, ma una corrente. L’unica variabile reale è l’orientamento interno — l’intenzione — con cui ci si muove.
Se tutto fosse davvero causale, prevedibile, lineare, allora sì: l’attenzione sarebbe tutto. Ogni istante conterebbe e ogni errore imprevisto sarebbe fatale. Ma in un mondo governato da configurazioni instabili, da incroci e coincidenze imprevedibili tra psiche e realtà, l’attenzione diventa secondaria.
Quello che conta è la direzione.
Non cercare di capire. O controllare. Né ottimizzare, come un algoritmo. Semplicemente, continua a muoverti. Soprattutto quando non c’è niente da capire.
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