Correva l’anno 1963, quando a Phoenix, in Arizona, un signore chiamato Ernesto Miranda fu arrestato dalla polizia. L’accusa era di aver rapito e stuprato una giovane donna, appena diciottenne. Durante l’interrogatorio, durato diverse ore, Ernesto confessò il delitto e la sua confessione fu usata in tribunale per condannarlo.
L’avvocato difensore impugnò l’ammissibilità della confessione in giudizio, poiché Ernesto Miranda non era stato informato dei suoi diritti costituzionali: il diritto di rimanere in silenzio e il diritto di essere assistito da un avvocato durante gli interrogatori. Il caso arrivò fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
La Corte Suprema nel 1966 diede ragione a Miranda: le prove non erano ammissibili. Da questa sentenza storica venne così alla luce la famosa formula che chiunque guardi polizieschi americani conosce a memoria — i “Miranda Rights”:
"E' suo diritto rimanere in silenzio. Tutto ciò che dice può essere usato contro di lei in tribunale. Ha il diritto di avere un avvocato. Se non se ne può permettere uno, uno le verrà fornito. Ha capito i diritti che le ho appena letto? Tenendo presente questi diritti, desidera parlare con me?"
Sono passati 57 anni dalla sentenza Miranda.
In questi 57 anni sono successe tante cose, ma soprattutto che ci siamo ritrovati a vivere in un mondo in cui tutto ciò che diciamo, scriviamo e facciamo — in sostanza, chi siamo — potrà essere usato contro di noi, fuori e dentro i tribunali, a prescindere da qualsiasi reato o indizio di colpevolezza.
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