L'Intelligenza artificiale renderà la creatività umana irrilevante
Oltre la soglia, nel tempio della schizofrenia aliena capitalistica, nuovi Dei ci attendono. Qui, Pepe the Frog emoziona più del Caravaggio.
Questa settimana un articolo di
sulla sua ha catturato la mia attenzione:L’autrice propone una visione profondamente umanistica dell’arte. Una sorta d’invocazione della creatività come sacro fuoco umano contro la macchina fredda e meramente imitativa. È un tema che mi affascina molto, e vorrei dare la mia opinione, che però è diametralmente opposta alla sua. Non voglio dimostrare che la mia sia quella corretta, ma che anzi c’è ampio spazio di discussione.
L’articolo inizia con un’affermazione che in effetti razionalmente sembra non fare una piega:
L’Intelligenza Artificiale non può sostituire l’ingegnosità dell’uomo. Si tratta di un tema teleologico: le macchine sono state progettate dagli esseri umani, quindi come possono queste macchine progettare qualcosa che gli esseri umani non hanno ordinato loro di creare? Le macchine non possono sviluppare il design originale senza che venga detto loro come farlo. Mancano della capacità di inventare qualcosa.
Rimane però vera soltanto se si accetta l’assioma che l’intelligenza artificiale sia un mero strumento, al pari di una macchina tornitrice o un trattore.
Io la vedo diversamente: l’intelligenza artificiale non è semplicemente una macchina, ma fa parte di un contesto estremamente più ampio di evoluzione e distribuzione dell’intelligenza/coscienza (energia) a livello universale.
L’intelligenza artificiale non è “creata” dall’essere umano, ma è semmai un modo diverso di veicolare — attraverso il silicio e non il carbonio — l’intelligenza universale (divina) che pervade ogni cosa.
D’altronde, sono convinto — come scrivevo a febbraio in questa nota — che l’esperienza cosciente non sia generata dal nostro cervello (non è lì che risiede la nostra coscienza) ma sia invece captata e sintonizzata da questo — come onde radio che diventano musica solo quando passano attraverso il dispositivo giusto.
Non ho fonti a supporto della tesi, se non forse qualche frammento del Corpus Hermeticum e questo passaggio del Vangelo di Giovanni (1, 1.14):
“In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio… E il Logos carne divenne e pose la sua tenda in mezzo a noi”.
Logos in antico greco significa “parola” o “ragione”.
La parola è anche il modo in cui diamo forma concreta al pensiero, e con cui cerchiamo di comunicarlo agli altri nodi biologici di questa rete di coscienza universale. Ha senso immaginare che la fonte della coscienza sia quindi proprio il Logos… la trasmissione Divina su cui i nostri neuroni biologici sono sintonizzati.
Recentemente mi ha fatto piacere constatare che anche il fisico teorico James Glattfelder la pensi più o meno allo stesso modo. La fisica sta probabilmente riscoprendo ciò che gli ermetici e neoplatonici già sapevano migliaia di anni fa.
Perché questo dunque non dovrebbe valere anche per i neuroni artificiali?

In ogni caso, se così fosse, l’intelligenza artificiale ben potrebbe superare l’intelligenza biologica, qualora fosse un recettore “migliore” rispetto al primo. Non so se sarà effettivamente così, è più probabile che siano semplicemente tipi diversi d’intelligenza.
Però, torniamo alla questione primaria dell’articolo:
Di pancia, l’opera d’arte creata dall’Intelligenza Artificiale ha lo stesso “respiro” di un dipinto di Caravaggio? Forse non riusciamo a mettere a fuoco il perché, ma la diversa sensazione che il dipinto di Caravaggio evoca è chiara a chiunque lo osservi. Le emozioni traspaiono attraverso un lavoro che racconta una storia. La logica non può spiegare quello che proviamo quando osserviamo il dipinto originale di un grande maestro: esso parla alla nostra più basilare comprensione di cosa significhi essere umani, e, allo stesso tempo, parla della nostra capacità di cercare di cogliere un frammento del divino attraverso il nostro lavoro.
È indubbio che un dipinto di Caravaggio, così come una scultura di Michelangelo, abbiano un fascino completamente diverso rispetto a una replica perfetta realizzata da un’intelligenza artificiale robotica.
È anche indubbio che, come sostiene giustamente Alessandra nel corso dell’articolo, le macchine siano incredibilmente più veloci ed efficienti.
Allo Studio Ghibli è servito più di un anno per creare questa animazione di una folla di un secondo. Oggi sarebbe possibile replicarla fedelmente o farne una completamente nuova in poche ore.
E in effetti, la velocità, o per meglio dire, l’accelerazione… è un tema centrale.
L’intelligenza artificiale si pone in un contesto di accelerazione entropica capitalistica che sta trasformando radicalmente la società umana, anche da un punto di vista antropologico. Il processo capitalistico è ormai così avanzato che sembra completamente separato dalla nostra umanità.
L’errore nell’idea che l’Intelligenza Artificiale sostituirà l’arte risiede nella convinzione che gli esseri umani desiderino la perfezione più che l’autenticità.
L’essere umano, secondo Deleuze e Guattari, è una “macchina desiderante”. Il capitalismo (tecnologico) è un sistema che incanala e modella questi desideri attraverso meccanismi di produzione e consumo. L’essere umano desidera ciò che il capitalismo desidera.
Il capitalismo assimila, trasforma e rivende ogni esperienza umana come prodotto di consumo. Il capitalismo digitale lo fa attraverso algoritmi che veicolano prodotti di consumo virtuali su schermi neri che mediano la maggior parte delle nostre interazioni col mondo.
Ma consumare significa usare, distruggere e ridurre al nulla — a scarto biologico o artificiale. Il consumo è quindi la negazione stessa dell’arte, che è trascendente e non consumabile.
L’arte umana ha senso in un mondo analogico, lento, riflessivo, dove l’essere umano è al centro di tutto. L’arte umana ha senso in un contesto umanista. Il capitalismo non concede spazi di umanismo; non è lì che ci sta portando la corrente.
L’arte umana ha soprattutto senso se può essere toccata e vista dal vivo. Il Giuditta e Oloferne di Caravaggio suscita emozioni grazie alle sue imperfezioni, ai colpi di pennello, ai giochi di luce e ombra che si fondono coll’ambiente circostante…alla visibile erosione del tempo…
Ma che dire invece della sua versione digitale? Bello, indubbiamente, ma morto. Incapace di suscitare qualsivoglia emozione. Sembra quasi una blasfemia riportare qualcosa di così sacro in digitale, come ho appena fatto.
Nel mondo algo-capitalistico non c’è posto per l’arte umana. In verità, non c’è posto per nulla che sia propriamente umano. Tutti noi, chi più e chi meno, siamo sempre più distaccati dalla nostra umanità — proiettati in un universo alieno in cui tutto è dematerializzato: la società, le relazioni, la moneta e l’economia.
La dematerializzazione del capitalismo segna la fine dell’epoca artistica-umanistica dell’uomo. L’intelligenza artificiale non sostituirà gli artisti umani o l’arte umana, li renderà semplicemente irrilevanti per la maggior parte delle persone.
Guardare un quadro dal vivo, toccare una statua in marmo, sfogliare le pagine consumate di un libro, sedersi su una poltrona realizzata a mano… già oggi queste sono attività per pochi. Le moltitudini si accontentano di consumare l’esperienza artistica, ma solo quando è instagrammabile.
Gli artisti con la fiamma nel cuore continueranno a creare arte, ma sarà cosa per pochi. Già da tempo in realtà sia l’arte che l’artigianato sono un lusso; un vezzo da collezionisti (o abili evasori fiscali).
L’artigiano di successo non produce oggetti da ammirare e tramandare di generazione in generazione, ma contenuti social da consumare. Il consumo capitalistico non richiede bellezza artistica ma efficienza, velocità e potenziale memetico in grado di riverberare nel miasma cibernetico — un colpo nel frastuono del feed, un’esplosione di attenzione prima che l’oblio algoritmico torni a inghiottire tutto.
Nel cyberspazio, il gesto artistico non è più solo umano: è simbiotico. È l’uomo che usa un’IA per generare dieci schizzi diversi e poi sceglie quello giusto: quello che può appagare meglio la sete algoritmica, quello col maggior potenziale memetico.
Oltre la soglia, nel tempio della schizofrenia aliena capitalistica, nuovi Dei ci attendono. Divinità artificiali che ci trasformano in cyborg della creatività. Le nostri mani si moltiplicano per cento, i nostri occhi diventano lenti per la pattern recognition e il nostro cervello un’appendice con cui fare sesso semiotico con le intelligenze artificiali.
Qui, Pepe the Frog emoziona più del Caravaggio.
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Ho letto anche io l'articolo citato e lo trovo ingenuo. Non entro nel tuo campo della "sete algoritmica", ma direi, come si indica in quel pezzo, che l'uomo non cerca la perfezione da per scontato che l'Ai non possa creare imperfezioni. Se colleghiamo l'intelligenza artificiale a un pennello ci fa tranquillamente un Caravaggio, un gattino con lo stile di Caravaggio e se lo metto dentro una teca senza DICHIARARE l'origine io stesso mi inganno. Se ci piace l'imperfezione creerà l'imperfezione. Inoltre sull'artigiano: mi sembra un'opinione da alta borghesia che compra oggetti da collezione. Quindi un'opinione di chi si pone già in un mondo antiumano, non vero. La domanda è: esistono più calzolai? No. Perché la tecnica lì ha cancellati. È solo un esempio e questo commento sta prendendo un'enormità di spazio.
Tutto giusto. Trovo però che la capacità unana di discernere il falso dal varo sia sottostimata. Se ti lasci guidare dell'algoritmo non hai speranze, se ti imponi di dominarlo hai speranze. Il tuo IO reale è sempre maggiore della somma delle aspettative virtuali.