Donald Trump, l'inarrestabile meme
Algoritmi, narrative iperstizionali e guerra semiotica stanno ridefinendo le elezioni nel XXI secolo e il rapporto tra politica e social network.
Trump è stato eletto, e dal 20 gennaio 2025 sarà il 47° Presidente degli Stati Uniti d’America.
Un’elezione che forse più che nel recente passato ha fatto impazzire gli elettori Dem, che tra video e post hanno coperto tutte le sfumature delle emozioni umane più negative e folli, intasando le condotte cibernetiche dei social network (e dei loro dotti lacrimali).
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I commentatori più sobri si sono limitati invece a del dignitoso coping, che molto spesso non colpisce direttamente Trump, ma Elon Musk in quanto proprietario di X. Un esempio:
As an immigrant, Elon Musk can't run for president himself, so he spent $130M+ of his own money to buy the presidency for Trump. Trump will be the one sworn in, but pay attention to who's really pulling the strings.
Una commentatrice in particolare, Carole Cadwalladr, giornalista già divenuta famosa per aver portato alla luce il caso Cambridge Analytica nel 2016, si è lanciata in un articolo apocalittico in cui descrive sostanzialmente la fine del mondo, che passa proprio da Elon Musk, in quanto proprietario di X:
Can you “weaponise” social media when social media is the weapon? Remember the philosopher Marshall McLuhan – “the medium is the message”? Well the medium now is Musk. The world’s richest man bought a global communication platform and is now the shadow head of state of what was the world’s greatest superpower. That’s the message. Have you got it yet?
Trump is cholera. His hate, his lies, it’s an infection that’s in the drinking water now
Does the technology mudslide hypothesis now make sense? Of how a small innovation can eventually disrupt a legacy brand? That brand is truth. It’s evidence. It’s journalism. It’s science. It’s the Enlightenment. A niche concept you’ll find behind a paywall at the New York Times.
Internet: non solo cultura, ma La Cultura
Social media is mainstream media now. It’s where the majority of the world gets its news. Though who even cares about news? It’s where the world gets its memes and jokes and consumes its endlessly mutating trends. Forget “internet culture”. The internet is culture. And this is where this election was fought and won … long before a single person cast a ballot.
Tutto questo mi ha portato a riflettere. È davvero come dicono? Carole scrive cose che non condivido, e alcune che invece ritengo esatte. Tuttavia, credo che lei stessa non comprenda le implicazioni di ciò che scrive.
Insomma, impossibile per me non pronunciarmi su un tema del genere, considerando anche che il contesto si presta bene anche a un’analisi “cibernetica” sui meccanismi di comunicazione, controllo e feedback che caratterizzano i rapporti d’influenza diretta e indiretta tra elezioni politiche e social network.
La questione tecnologica nel processo politico è indubbiamente rilevante: casse di risonanza, algoritmi di profilazione e di raccomandazione, deep fakes e meme sono ormai gli strumenti attraverso cui viene propagato il messaggio politico. In questo Carole Cadwalladr ha ragione: The internet is culture; ed è una cultura fatta di meme e narrazioni virali — a prescindere dalla loro veridicità o meno.
Questo è particolarmente vero per le elezioni statunitensi, molto più che per qualsiasi elezione europea. L’animo europeo è infatti talmente comatoso che ciò che facciamo o diciamo non interessa neanche agli algoritmi. Viceversa, gli americani in qualche modo riescono ancora a mantenere un elevato livello di passione che li porta invece a scannarsi, facendo scaldare i motori della viralità.
Non è un megafono
L’errore che commettono molti commentatori — perché evidentemente non leggono Cyber Hermetica — sta proprio nel non comprendere appieno la natura cibernetica dei rapporti tra umanità e tecnologia digitale.
Troppi si soffermano sul fatto che attraverso i social sia possibile amplificare un messaggio politico: da questa posizione arrivano i commenti di coloro che sostengono che Elon Musk abbia ‘comprato’ le elezioni a Trump grazie al suo ‘controllo’ di X. Non stupisce quindi che il The Guardian scriva: “This is what we're up against. A media ecosystem dominated by a handful of billionaire owners”. Curioso, considerando che il giornalismo mainstream, di cui testate come il The Guardian fanno chiaramente parte, sia da immemore tempo dominio di una ristretta elite internazionale.
In ogni caso, questa è chiaramente una clamorosa cazzata: i social network e i meccanismi algoritmici che li regolano non sono semplicemente megafoni da usare e mirare verso l’audience per gridare il proprio messaggio. Questo è semmai il ruolo delle testate giornalistiche mainstream, che infatti continuano a vomitare comunicati anti-Trump da ormai diversi anni.
I social network sono cosa diversa. Sono un ecosistema cibernetico; una Generative Adversarial Network ibrida in cui esseri umani e algoritmi dialogano tra loro e si influenzano a vicenda attraverso meme e narrazioni allucinogene. Nel contesto del discorso politico, questo significa che i messaggi non sono comunicati unilateralmente come sulle testate giornalistiche, ma entrano a far parte di una conversazione1 tra esseri umani e algoritmi. I messaggi vengono così modificati, ampliati o attenuati in base ai meccanismi di retroazione.
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Chi controlla gli algoritmi?
Ora, qualcuno potrebbe dire che chi controlla i social network ne controlla anche gli algoritmi, e pertanto ha il potere di manipolare e direzionare i messaggi che arrivano alle persone.
Questo può essere parzialmente vero, nel senso che gli sviluppatori possono creare parametri, pesi e istruzioni per cercare di controllare il funzionamento dell’algoritmo.
Tuttavia, gli algoritmi dei social network seguono logiche di ottimizzazione che hanno l’unico obiettivo di massimizzare l'engagement. Questo può portare a una radicalizzazione inaspettata dei contenuti o a fenomeni di viralità senza che ci sia una direzione intenzionale. Saranno soltanto i contenuti informativi che piacciono (o non piacciono) di più agli esseri umani in un dato momento che potranno solcare l’alta onda algoritmica.
Il meme come entità autonoma
L’algoritmo non può prevedere o influenzare la narrazione. L’algoritmo non fa altro che potenziare e velocizzare ciò che è già destinato ad essere.
Pertanto, poiché nessuno può controllare la hive mind umana (o incoscienza collettiva), nessuno è davvero in grado di governare la narrazione e la viralità dei contenuti.
Se Trump ha vinto, è perché il suo potenziale memetico è altissimo. Lo so, sembra una cavolata, ma è così che funziona l’universo cibernetico, tanto che il giorno prima delle elezioni scrivevo:
In termini occultistici, potremmo dire che Trump è un’eggregora, cioè un’entità che prende vita attraverso meditazione collettiva o pensieri ossessivi collettivi. In quanto tale, Trump gode attualmente di una sorta di plot armor: fintanto che l’inconscio collettivo lo sosterrà — anche antagonizzandolo — sarà invincibile, sia politicamente che fisicamente.
Manipolazione? Nah, Iperstizione Memetica
Constatato questo, è evidente che Carole Cadwalladr commette l’errore di presumere che oggi siamo di fronte alle conseguenze di ciò che fu sdoganato con il caso Cambridge Analytica.
Cambridge Analytica utilizzò algoritmi di profilazione e raccomandazione per veicolare messaggi mirati a utenti particolarmente sensibili, con l’obiettivo di manipolare le loro opinioni politiche e portarli a rinunciare al voto o a votare per i committenti. Non bisogna confondere un’attività del genere, assolutamente e certamente nel controllo dell’uomo, con ciò che invece riguarda i meccanismi cibernetici di viralità e narrazione memetica sui social network.
Non c’è una Cambridge Analytica che ha convinto il popolo americano a votare Trump; né possiamo puntare il dito verso gli sforzi pubblici di Elon Musk — che non ha fatto altro che surfare l’onda memetica (certamente Elon conosce e riconosce bene questi meccanismi) fino a riva.
Siamo oggi di fronte a nuovi circuiti cibernetici globali capaci di creare processi iperstizionali al di fuori del controllo di chiunque. Né Elon Musk, né Jeff Bezos o Mark Zuckerberg possono controllare o prevedere ciò che diverrà virale o — per dirlo in altri termini — il meme che conquisterà l’animo umano e diverrà realtà.
L’Era della lotta semiotica
Il contesto dei social network così delineato — che è come giustamente scritto da Carole Cadwalladr il vero campo di battaglia delle idee — trasforma la lotta politica in lotta semiotica: un confronto tra messaggi mediatici in cui la realtà oggettiva soccombe alle percezioni frammentarie create dalle bolle algoritmiche. Programmi politici, dibattiti e interviste non contano nulla: conta solo la narrazione.
La capacità di governare la narrativa diventa un'arma potente — che perònon significa governare la corrente. Il politico, o per meglio dire il social media manager del politico, è il capitano di una nave a vela nel grande oceano cibernetico. Potrà certamente direzionare il timone e scegliere una direzione, ma non potrà mai controllare il vento, la corrente marina e l’evoluzione delle onde algoritmiche.
Filter Bubbles e guerra civile perpetua
L’ultimo punto riguarda invece l’impatto sociale di tutto questo. Gli algoritmi di profilazione hanno un ruolo primario nel segmentare gli utenti in tanti gruppi chiamati “filter bubbles” o “echo chambers”. Anche qui non c’è un vero e proprio controllo degli algoritmi da parte degli oligarchi della tecnologia, seppur sia possibile gestire in modo più pervasivo il funzionamento degli stessi.
A prescindere da come accada, sappiamo che ognuno di noi è immerso in una “bolla” virtuale più o meno grande, all’interno della quale vengono proposti contenuti che piacciono a noi o ai nostri pari (peers). Ogni tanto, un meme riesce a bucare la membrana semipermeabile di queste bolle, diffondendosi come un virus all’interno di tutte quelle che riesce a toccare.
Il problema delle bolle è che, salvo casi di viralità iperstizionale, propongono sempre e solo contenuti che secondo l’algoritmo creano più engagement tra gli utenti. Ciò significa, nel caso delle elezioni, che ogni elettore vede soltanto ciò che vuole vedere. La “verità” è sempre quella che crea più engagement sinaptico. La realtà diviene estremamente frammentata e soggettiva, complicando così la percezione del “tutto”.
Un frattale infinito
Il fenomeno è estremamente interessante, perché in qualche modo rappresenta una sorta di frattale infinito attraverso cui i messaggi politici vengono propagati soltanto in relazione alle micro e macro bolle in cui ognuno di noi si inserisce.
In questo contesto è dunque facile immaginare un contesto di “guerra civile perenne”, sia esterna che interna (dissonanza cognitiva) in cui ogni ciclo elettorale sarà sempre e comunque fraudolento; vinceranno sempre e comunque i “cattivi” e milioni di persone si strapperanno i capelli — da una parte o dall’altra.
Il fenomeno è tanto più evidente quanto più è precaria la condizione intellettuale degli utenti. Non è un caso che l’elettorato Dem, già statisticamente afflitto da numerose patologie mentali e vuotezza spirituale, sia quello generalmente più colpito.
Un Generative Adversarial Network planetario
In ogni caso, il conflitto è inevitabile.
Come discutevo già anche in altre occasioni (qui), l’umanità è stata catapultata, inconsapevolmente, in una sorta di Generative Adversarial Network planetaria che proprio attraverso il conflitto delle coscienze e delle idee sta pian piano formando nuovi archetipi culturali, religiosi e spirituali.
Preparate le parrucche, perché ci saranno ancora tanti capelli da strappare.
Carole farebbe meglio a leggere McLuhan invece che citarlo ed inserirlo in contesti a caso